Aspetto con ansia il mercoledì.
E’ il mio giorno dell’acqua, il giorno della piscina. Preparo la mia sacca la sera prima come se fosse la cartella di scuola, controllo con attenzione che ci sia tutto, dal costume alla crema idratante. Non voglio dimenticarmi niente.
Quando arrivo al centro sportivo sono felice come una bambina. Saluto Jessie della reception, Fred che distribuisce gli asciugamani puliti, Sammy che raccoglie quelli sporchi, Lorna che pulisce i gabinetti, il dottor Smithson che segue gli atleti professionisti e la signora Crandall che a quasi ottant’anni non rinuncia per niente al mondo alla sua ora settimanale di acqua gym.
Il mercoledì è anche il giorno in cui vedo Tom. Ci conosciamo da quattro anni, lui lavora nel centro sportivo dove si trova la piscina, è un ex atleta della nazionale di nuoto americana e tra i suoi tanti lavori c’è quello di personal trainer per il jet set di Los Angeles.
E’ il mio fisioterapista.
Io non ho certo il fisico delle super femmine che lui segue, a volte ci scherzo sopra. Ehi Tom, che dici, me le devo rifare anche io le tette? Sorride un po’ imbarazzato mentre manipola e controlla le mie gambe e le mie braccia, poi torna subito serio e si mette come in ascolto: aspetta forse che il mio corpo gli dica qualcosa?
In acqua sono felice. Semplicemente. Mi muovo nel mio elemento. Chiudo gli occhi e mi immagino di essere insieme alle altre creature marine, mie amiche, mie simili. Pesci, stelle marine, alghe, plancton, meduse, delfini, balene, barracuda.
L’acqua è l’origine.
Immagino che anziché le piastrelle blu ed azzure del fondo vasca ci siano le profondità dei canyon marini, mi sembra di vedere l’oscurità infinita della Fossa delle Marianne e mi chiedo quali forme di vita abitino i suoi fondali inesplorati.
Non ho paura.
Sono abbastanza elegante? Chiedo a Tom che mi segue dal bordo vasca controllando i tempi sul suo orologio. No, non sono elegante, lo so. Nuoto disarticolata, non ho stile e del resto questa cosa, lo stile, io non ce l’ho nemmeno nella vita di tutti i giorni. La mia forza però è che me ne sono sempre fregata e forse questa è una delle cose che mi ha salvato.
So che gli altri mi osservano. Chi con curiosità, chi con pietà. Chi con fastidio, perchè una come me turba la quiete.
L’unico che mi guarda con attenzione sincera è Tom. Lo fa e lo deve fare perchè è il suo lavoro, certo, ma negli anni credo che abbia imparato ad apprezzare il mio coraggio e la mia sfrontatezza.
Non mi arrendo di fronte a niente, non più.
Nuoto per circa quaranta minuti, terminati i quali Tom ed un suo assistente mi prendono sotto le ascelle, contano Uno, due, tre! e mi rimettono sulla sedia a rotelle.
Sono paraplegica. Tornavo dal lavoro, ero al semaforo che aspettavo di attraversare la strada, il semaforo è diventato verde ed io ho avuto solo il tempo di mettere il piede sulla prima delle strisce pedonali. Poi il buio.
Il motivo? Qualcuno ha alzato lo sguardo dal suo smartphone troppo tardi per frenare.
Alla fine di ogni nuotata Tom mi chiede come è andata. Gli dico sempre la verità e cioè Bene. Lui sorride e io penso che magari, in un’altra vita, avremmo potuto innamorarci. Spinge la mia carrozzella fino alla porta degli spogliatoi femminili e poi mi saluta dicendomi Brava ragazza, vai avanti così.
E mentre torno a casa e ascolto mia madre che, guidando, mi ricorda come sempre che deve fermarsi da Safeaway per prendere il latte e le uova, penso a tutte le volte che mi hanno chiesto come si fa ad affrontare quello che è successo a me. Come si fa a resistere alla tentazione di mollare tutto, di farla finita. Come si fa a trovare la forza per alzarsi dal letto e uscire di casa.
Queste domande mi stupiscono. Mi irritano. Mi sembra che la gente si dimentichi della cosa più semplice e più importante.
Io amo la vita.
Testo e foto (Monterey, 2017) ©Maria Cristina Codecasa Conti
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.