Chi salva una vita, salva il mondo intero.
(dal Talmud)
Sono nata a Milano in Italia il 29 gennaio del 1933.
Sono una italiana.
La mia era una famiglia di industriali tessili, avevano una industria serica nel comasco. Vivevamo in una grande casa in Corso Venezia. Mio padre si era laureato presto e aveva altrettanto presto sposato mia madre, sua compagna di liceo, discendente da una nobile famiglia lombarda. Io sono stata la loro unica figlia. Durante la gravidanza mia madre si ammalò gravemente di depressione, la situazione peggiorò dopo il parto tanto che fu necessario ricoverarla in una clinica in Svizzera per diversi mesi. Appena nata, non volle né vedermi né toccarmi, qualcuno raccontò che si mise a urlare quando l’infermiera fece per mettermi tra le sue braccia.
Penso che per mio padre, il mio amato padre, questo sia stato un dolore immenso. Come molti uomini in situazioni simili, si buttò nel lavoro che lo teneva occupato tutto il giorno, spesso all’estero, in America, dove la sua azienda aveva trovato sbocchi commerciali importanti. Della malattia di sua moglie non parlò mai con nessuno, eccetto che con i medici che avevano in cura mia madre. Ma non mi fece mai mancare il suo amore incondizionato. Quando dopo mesi mia madre tornò a casa, non volle vedermi. Non chiese neanche di me. Si chiuse in una stanza che le era stata riservata e dalla quale usciva pochissimo ed in silenzio, spesso di notte, per camminare da sola ore e ore per le strade della città, rimandando sempre il momento di ritornare a casa.
Così ho saputo tanti anni dopo.
Si tolse la vita la vigilia di Natale del 1937, la trovò mio padre che era andato a chiamarla per chiederle di andare insieme alla Messa in Duomo. Io non mi accorsi di niente, avevo quattro anni e ancora non so come si sia uccisa: nessuno ha mai voluto dirmelo. Il fatto che il giorno di Natale mia madre non ci fosse non fu una novità: lei, per me, non c’era mai stata. E’ atroce dirlo, ma quello fu per me un Natale come tutti gli altri. Senza di lei.
Poi venne la guerra. Ricordo in casa un grande nervosismo. Ricordo delle telefonate interminabili di mio padre. Ricordo l’odore della paura. Ricordo la notte rumori, parole ovattate, lacrime: ho saputo dopo anni che erano ebrei che mio padre aiutava a fuggire grazie alle sue buone conoscenze all’ambasciata americana. Non ci sono riusciti tutti. Molti sono stati uccisi o traditi catturati e deportati. La mia non era una famiglia ebrea, ma era fortemente antifascista. Il fratello minore di mio padre era scappato da Milano per diventare un combattente partigiano nelle valli dell’Ossola. E da quel giorno la vita di mio padre, della sua fabbrica e dei suoi operai era diventata difficile. Amava molto i suoi operai. Lo so perchè tanti di loro, anni dopo, mi scrissero lettere commoventi ricordandomi il suo coraggio, la sua integrità, ma soprattutto la sua incredibile umanità.
Mio padre è stato fucilato dai fascisti una mattina di primavera mentre andava in fabbrica sulla macchina guidata dal suo autista. Gli fecero una imboscata. Suo fratello fu catturato, torturato ed ucciso poco tempo dopo. La fabbrica requisita. Quando tutto questo accadde, io non ero più con lui, nè in Italia, da tempo.
Una notte, mio padre mi aveva svegliato, mi aveva abbracciato fortissimo e mi aveva detto Devi essere la bambina forte e coraggiosa che sei sempre stata. Poi mi aveva spiegato che erano venuti a prendermi dei signori americani che mi avrebbero portato con loro lontano, in America, perchè la situazione in Italia stava diventando molto pericolosa e difficile, ma lui mi avrebbe raggiunto appena possibile. Promesso. Mai avrebbe sopportato che anche a sua figlia accadesse qualcosa. Non dimenticare mai che il tuo papà ti ama più della sua vita. Ricordo che iniziai a piangere disperatamente. Ricordo le lacrime della signora americana che mi prese in braccio e le parole di mio padre Take care of her e la macchina grande e scura su cui salimmo e il sonno della disperazione in cui caddi di lì a poco, sfiancata dal dolore e dalla paura.
Dopo un lungo e pericoloso viaggio durato più di un mese arrivai a San Francisco ed andai a vivere con i signori americani a cui mio padre mi aveva affidato. Fui adottata legalmente da loro nel 1947 quando avevo 14 anni. Erano stati meravigliosi con me: amorevoli, pazienti, generosi. Non mi avevano fatto mancare niente. Mi avevano dato una casa, l’istruzione, la possibilità di avere un futuro concreto davanti a me. Eppure, nonostante tutti i loro sforzi, il loro coraggio, la loro dedizione ed il loro amore sincero, io non ero mai riuscita ad amarli come avrei voluto. O dovuto.
Il dolore dentro di me era qualcosa di mostruosamente grande, ingestibile, divorante.
E a quindici anni smisi di parlare. Un giorno, una settimana, un mese. Visite dai dottori, esami, test. Un mese, sei mesi, un anno, due anni. Psichiatri, logopedisti, neurologi. Qulacuno ad un certo puntò ipotizzo delle familiarità con la depressione di mia madre. Era una ipotesi legittima. La verità è che io non perdonavo a me stessa di essere una sopravvissuta. A mia madre, a mio padre, a tutta quella gente che lui aveva cercato di mettere in salvo, ai milioni di vite sprofondate nel nulla, divorate dall’indifferenza, annientate dalla crudeltà umana.
La verità è che si sopravvive nel corpo ma la testa non lo segue, va giù. Sprofonda negli inferi, non ha pace. Pensi ai volti, tenti di ricordarti degli odori, ti sembra di sentire delle voci. O almeno così vorresti. Negli anni iniziai a capire meglio, a mettere insieme i ricordi, costruire una storia, stabilire un senso. E fu terribile. La memoria divenne per me una necessità ma anche una prigione. Mi sembrava di essere finita in una grande palude che lentamente mi divorava.
Smisi di parlare e mi chiusi in un silenzio in cui non feci entrare più nessuno. Come mia madre, anche io iniziai a trascorrere molte ore fuori casa andando a fare lunghe e sfiancanti camminate che potevano durare ore. Molte volte i miei genitori adottivi chiamarono la polizia per farmi cercare. Il loro dolore e la loro angoscia mi arrivavano come un’eco lontana. Non potevo raggiungerli.
Poi arrivò una mattina di settembre. Camminavo sulla battigia a Baker Beach, avevo quasi diciotto anni. Ero in giro dall’alba ed iniziavo ad avere fame, quindi tirai fuori dalla tasca della giacca una mela ed iniziai a mangiarla. All’inizio non me ne accorsi, c’era vento ed il mare era increspato, i suoni arrivavano attutiti. Ma poi ci feci caso e mi voltai verso il Golden Gate e vidi un cane che abbiava disperato correndo avanti e indietro sulla battigia. Sembrava impazzito.
Buttai la mela per terra ed iniziai a correre nella sua direzione e più mi avvicinavo e più il cane non aveva pace, mi venne incontro abbaiando e poi si mise a correre disperatamente verso il mare. Una due tre volte. Allora capii. Vidi in mare all’orizzonte a qualche metro dalla riva una sagoma scura che si agitava. Era una donna e stava annegando. Sta morendo. Istintivamente mi buttai in acqua ed iniziai a nuotare con una fatica immensa. Non ce la faccio, sta morendo. Quando la raggiunsi non si muoveva più e io iniziai a urlare con tutta la mia forza Non mollare Non mollare Non mollare. La mia voce uscì con una potenza di cui non mi ricordavo e di cui non mi ritenevo capace. Continuando ad urlare la presi per un braccio e la portai a riva. Non mollare Non mollare Non mollare. Iniziai a farle un massaggio cardiaco, senza mai smettere di urlare e piangere come una pazza. Il cane guaiva disperato e le leccava il viso. Avrei voluto che asciugasse anche le mie lacrime, tutte le lacrime versate, trattenute, nascoste. Avrei voluto che appoggiasse una zampa sul mio cuore e dicesse anche a me Non mollare. Poi, improvvisamente, la donna iniziò a tossire e a vomitare acqua. Si girò su un fianco tossendo e vomitando e rimase alcuni istanti in silenzio. Quando voltò il viso verso di me, era rigato di lacrime. Aveva gli occhi verdi, profondi, come quelli di mio padre. Mi hai salvato la vita. Prese il mio viso tra le mani. Mi hai salvato la vita. Ci abbracciammo a lungo, in silenzio, piangendo tutto il dolore e la paura. Mi hai salvato la vita.
Quel giorno tornai a casa molto tardi. Trovai i miei genitori adottivi seduti in soggiorno, totalmente sconvolti. Senza dire una parola, andai verso di loro e li abbracciai con tutta la forza che mi era rimasta.
Non mi chiesero niente. Fui io che iniziai a raccontare loro cosa era accaduto. Guardandoli negli occhi, tenendo strette le loro mani.
Oggi qualcuno mi ha salvato la vita.
Testo e foto (Sausalito, 2017) Maria Cristina Codecasa Conti
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