In casa mia si odiano tutti.
Mia madre odia mio padre perché dice che le ha rovinato la vita mettendola incinta quando lei aveva quindici anni. Mio padre odia mia madre perché dice che lei gli ha rovinato la vita incastrandolo con un figlio quando lui aveva diciassette anni. Il figlio che ha rovinato la vita a entrambi sono io. Stranamente non sono rimasto l’unico. Ho una sorella minore, che ovviamente mi odia perché dice che io sono il cocco dei nostri genitori perché parlano sempre e solo di me. Ho cercato di spiegarle che non è esattamente una cosa che mi faccia piacere sapere come mai sono spesso al centro delle loro conversazioni, ma l’argomento non ha avuto su di lei alcuna presa.
Mia madre ha due sorelle che la odiano perché è l’unica che si è sposata con un buon partito incastrandolo con un figlio quando era un ragazzino, mentre loro che hanno fatto le cose per bene e senza rovinare il buon nome della famiglia hanno sposato due morti di fame che oltre a non avere combinato nulla di buono nella vita passano la giornata a giocare a poker, senza per altro vincere nulla.
Mio padre ha due fratelli che lo odiano perché è riuscito ad avere la ragazza più carina del liceo e perché, pur dovendo iniziare a lavorare presto visto che aveva un figlio in arrivo, è riuscito a creare dal nulla una azienda agricola di import/export che fattura milioni di dollari, mentre loro, laureati rispettivamente a Stanford e ad Harvard, oggi fanno rispettivamente il dog sitter per i chihuahua dei russi ricchi a Rodeo Drive ed il contabile in un negozio di cinesi a Market Street specializzato nella riparazione di smartphone.
Nonostante queste premesse, il Natale nella nostra famiglia rimane inspiegabilmente una tradizione sacra.
Si riuniscono tutti a casa nostra, perché è molto grande: abbiamo un grande soggiorno, l’home theater wireless, la piscina con idromassaggio, la piscina senza idromassaggio, la zona barbecue, insomma stiamo bene.
Mia madre prepara nell’ingresso a doppia altezza con scalone d’onore della casa un gigantesco albero di Natale che decora con decine di angioletti d’oro ed un numero impressionante di lucine che più di una volta hanno rischiato di mandare letteralmente in fumo ogni progetto di festeggiamenti. Cosa che, è chiaro, per me sarebbe stata una immensa liberazione.
Ma la cosa davvero incredibile è che ogni anno ogni parente arriva con un sacchettino addobbato con fiocchi e fiocchettini contenente un angioletto. Si, uno stramaledetto angioletto.
Di ceramica, di legno, di strass, di vetro. Inciso, dipinto, tessuto, ricamato. Small, medium o large. Made in Italy (i più pregiati), handmade o made in China. Di zucchero, di cioccolato, di pasta frolla o di marzapane. Purché siano angeli.
Alla fine io ho capito che tutti questi angioletti rappresentano in realtà la loro cattiva coscienza.
Quest’anno il giorno dopo Natale mi sono svegliato con una strana sensazione. Mentre mangiavo in cucina un avanzo di torta di carote e bevevo una tazza di caffè, sentivo su di me gli occhi di tutti quegli angeli che mi guardavano in silenzio. Mi è sembrata una provocazione e ho detto “Ok ragazzi, direi che per quest’anno la misura è colma”.
Ho iniziato a girare per casa raccattando tutti quelli che trovavo, anche in forma di avanzi di biscotti di pasta frolla sui vassoi in argento che mia madre mette in svariati angoli della casa. Ho tolto tutti gli angioletti dall’albero di Natale. Poi ho preso un sacco della spazzatura e li ho buttati tutti lì dentro, sono andato in garage, sono salito in macchina e mi sono diretto fuori città.
Ho guidato per qualche chilometro fino all’officina meccanica del mio amico ex pugile Dexter. Vedendomi scaricare dalla macchina quella quantità impressionante di angeli Dexter mi ha chiesto se andava tutto bene. Io gli ho detto che sì, forse per la prima volta nella mia vita andava tutto benissimo.
Gli ho chiesto se mi prestava due cose: il muro sul retro del suo garage e una delle sue pistole. Poi con infinita pazienza ho preso una ad una tutte queste creature alate ed inanimate e le ho appoggiate contro il muro.
La giornata era meravigliosa, l’orizzonte sul deserto infinito, l’aria tersa. Sentivo di avere scelto il momento ideale. E mi sentivo in pace. Mi sono acceso una sigaretta che ho fumato molto lentamente e con gusto, tenendo gli occhi chiusi.
Quindi ho preso la pistola, l’ho puntata verso le centinaia di angioletti che mi fissavano con strafottenza e ho iniziato a sparare.
Dexter fumava una sigaretta accanto a me senza dire una parola. Una volta finito, gli ho restituito la pistola e gli ho detto “Ok, ora pulisco tutto Dex”. “Non ti preoccupare amico” mi ha detto, “Faccio io”. Ci siamo bevuti insieme una birra, poi sono risalito in macchina e mi sono diretto verso la città.
Quando sono arrivato a casa, ho trovato mia madre seduta sui gradini dello scalone d’onore nell’ingresso a doppia altezza. Fissava pallida il suo albero di Natale senza più un angioletto.
Non mi sono sentito in colpa. Non mi sono nemmeno sentito un verme. Nemmeno quando le ho detto “Ehi mamma, non prendertela. Ti resta sempre il tuo angelo custode”.
E sono andato a farmi una doccia.
Testo e foto (Bryce Canyon, 2017) ©Maria Cristina Codecasa Conti