Mio marito dice che dopo cinque anni di matrimonio non ho ancora imparato a fare l’arrosto buono come quello di sua madre. Lo dice a tutti. Lo dice ai suoi colleghi, al suo capo, agli amici del golf club, a quelli del circolo del burraco, all’istruttore di tennis, al reverendo la domenica a messa, alla cassiera del supermercato.
La mattina che ci siamo sposati sua madre è venuta da me e mi ha detto “Ti insegnerò a fare il mio arrosto speciale perchè Charlie ne va matto”. Non mi ha detto “Ti auguro di essere felice” oppure “Sono contenta che tu sia la moglie di mio figlio”. No, ha detto solo che mi avrebbe insegnato a fare il suo arrosto speciale per suo figlio Charlie.
All’inizio mia suocera capitava spesso e senza preavviso a casa nostra, con il sacchetto della spesa, cinguettando un “Mettiamoci all’opera!” Magari io mi stavo facendo la ceretta, oppure stavo telefonando ad una amica, o ritirando il bucato dall’asciugatrice. Ma se arrivava lei, qualunque cosa io stessi facendo dovevo immediatamente dedicarmi all’arrosto.
Mi aveva regalato un taccuino per prendere appunti, “Ogni brava donna di casa ce l’ha”. Trovava assolutamente normale che dopo le nozze io avessi assecondato la richiesta di Charlie di rimanere a casa a fare solo la moglie, mollando il mio lavoro di grafica in una piccola agenzia di web design dove avevo trovato impiego dopo la scuola. “Quando arriveranno i bambini capirai di avere fatto la scelta giusta”, diceva.
Ciò nonostante, non mi aveva mai dimostrato il minimo segno non dico di gratitudine, ma di solidarietà umana, o cameratismo al femminile.
Queste lezioni sulla preparazione dell’arrosto duravano circa tre ore e terminavano, guarda caso, quando Charlie rientrava a casa dal lavoro per la cena.
Smisero quando il fratello maggiore di Charlie confessò alla famiglia di essere gay e di essersi sposato a Las Vegas con un suo vecchio compagno di liceo che aveva incontrato casualmente qualche mese prima ad un congresso internazionale sulla viticultura nella Napa Valley.
Per mia suocera fu un colpo troppo grande, il suo arrosto ed il matrimonio gay a Las Vegas del primogenito erano due concetti incompatibili, incomunicabili, inconciliabili.
L’unica volta che tentai di dirle che forse stava un attimo esagerando nelle sue reazioni e che avrebbe dovuto provare a mettersi per un momento nei panni di suo figlio per cercare di capire i suoi sentimenti, mi disse solo “Quando avrai figli anche tu capirai”.
I figli però non sono mai arrivati. Dopo innumerevoli ed alla fine logoranti tentativi per restare incinta naturalmente, dopo mesi di cure e di bombardamento ormonale per la procreazione assistita, abbiamo capito che non avremmo mai potuto averne. E poiché il problema dipendeva da Charlie, colpito dolorosamente nel suo orgoglio maschile mi disse da subito di scordarmi qualunque ipotesi di adozione perchè per lui i figli dovevano essere sangue del suo sangue.
A quel punto presi un cane, Mr. Bean.
Dissi a Charlie che, essendosi allontanata per sempre la possibilità di vedermi a casa felice a preparare torte alle mele per i nostri bambini mentre nel forno cuoceva l’arrosto, visto che le cure per l’inseminazione artificiale erano costate parecchio, era giunto il momento che io tornassi a lavorare.
Non obiettò granchè. Fece solo un cenno di assenso silenzioso con la testa mentre guardava alla televisione la finale del super bowl.
Così feci. Ricontattai la mia agenzia di web design. Nonostante la crisi, avevano continuato a lavorare pur dimezzando gli incassi. “C’è sempre bisogno di qualcuno in gamba come te”, mi disse il capo.
Sono sposata da cinque anni. Non so se sono felice. E’ una domanda che evito di farmi, forse perchè temo la risposta. Io e Charlie siamo una coppia normale. Facciamo cose normali. Vediamo persone normali. Dopo la dolorosa scoperta dell’impossibilità di avere figli, ognuno di noi si è chiuso in realtà nel proprio silenzio. Parliamo, parliamo spesso, ma in realtà non comunichiamo davvero. Ne abbiamo ancora molta paura. Cerchiamo di mantenere le apparenze, so che lui ci tiene. E forse fa comodo anche a me.
Resta solo la questione dell’arrosto.
Ho smesso di farlo. Ed anche di provarci. Ogni tanto compro un pollo arrosto al supermercato: la prima volta che Charlie lo ha visto sul tavolo ha dovuto visibilmente trattenersi dal lanciarlo dalla finestra. “In materia di pennuti arrostiti questo è il massimo che posso fare”, gli ho detto.
“Ed anche in materia di matrimoni, questo è il massimo che posso fare” avrei voluto dirgli. Perchè quell’arrosto sono io.
Testo e foto (San Francisco Museum of Modern Art, 2017) ©Maria Cristina Codecasa Conti