Gino Cosentino, il mio maestro.

Maria Cristina Codecasa Conti e Gino Cosentino

A chi mi chiede o ha chiesto come mai io, architetto, ho iniziato ad occuparmi di moda ho sempre risposto che uno degli artefici della mia metamorfosi professionale è stato sicuramente lo scultore Gino Cosentino (1916-2005). E’ stato lui, infatti, ad insegnarmi, tra le tante cose, anche l’arte dell’oreficeria. Ed è grazie ai miei “gioielli” che io ho iniziato a fare questo lavoro. Ma questa è un’altra storia ancora.

Senza esagerazione, considero Gino Cosentino uno dei più grandi artisti italiani che abbiamo avuto. Nutro nei suoi confronti un sentimento di riconoscenza infinita: ancora oggi a distanza di anni, mi rendo conto di quanto sia stato importante il suo insegnamento ed alto il suo valore umano.

Il 14 dicembre 2005 il Politecnico di Milano gli dedicò un seminario al quale ebbi l’onore di partecipare. Pubblico qui di seguito il testo del mio intervento, senza alcun rimaneggiamento.

E adesso?

Gino Cosentino ha avuto, negli anni, molti allievi – ma non ha mai creato una scuola. Per fortuna, si potrebbe dire. Non c’è, non si può parlare di una “scuola Cosentino”. Non nel senso corrente, men che meno in quello accademico. Non ci sono neofiti, adepti, cloni. Ognuno dei suoi allievi ha saputo mantenere la propria individualità, più o meno sicura, più o meno originale, più o meno traballante. Come maestro, Cosentino non ha mai soverchiato nessuno – il rispetto per l’altro era totale, sincero, scontato. La sua domanda di rito, quando si andava in studio da lui per imparare a lavorare, era: “Oggi cosa vuoi fare?”. Libertà. Metteva a tua disposizione pennelli, colori e pigmenti preziosissimi, blocchi di pietra, sacchi di scagliola, compressore e scalpelli. Generosità. Era curioso, entusiasta delle buone idee, solidale nei momenti di sconforto, quando iniziava ad elencarti tutte le opere che nella sua vita aveva letteralmente distrutto perché sbagliate, oppure abbandonate e poi riprese a distanza di anni, con occhi nuovi. Umanità. Un maestro decisamente fuori dagli schemi. Ciò nonostante (o forse: proprio per questo), il valore dell’insegnamento di Cosentino è fuori discussione – non catalogabile, non assimilabile, non riconducibile – proprio come lui. Cercherò di spiegarne l’importanza attraverso quelli che io considero punti essenziali del suo insegnamento.

Poesia e amore.

Poesia ed amore sono due parole che Cosentino ripeteva spesso. Poesia ed amore vengono prima di qualsiasi gesto, prima di qualsiasi idea od intenzionalità creativa. Poesia ed amore presuppongono oppure necessitano della capacità e disponibilità a vedere ed ascoltare. Cosentino diceva che sono gli occhi delle persone che ci rivelano la presenza della poesia e dell’amore. Ad ogni modo, queste costituiscono la base, la condizione essenziale per il fare “artistico”. Come dire: non può esserci arte senza la capacità di amare, senza la capacità di sentire. La pancia prima della testa.

La materia

Ma soprattutto la materia, prima di tutto. La materia ha le sue leggi. Per imparare a conoscere le leggi della materia, occorre averne rispetto, accostarvisi con umiltà. Come dire: la materia ci insegna. Umiltà è un’altra parola chiave. Bisogna esse pronti a demolire l’universo di idee, suggestioni, pensieri, significati, immagini con cui ci si accosta ad una tavola di legno, ad un blocco di travertino, ad una lamina d’argento col desiderio di tirarne fuori qualcosa di nostro – lo possiamo fare se abbiamo l’umiltà di riconoscere che la materia è più forte di qualunque idea figurativa. Si parli di metallo, di pietra, di pigmenti colorati, colori ad olio, legno – di fronte ad ognuno di questi materiali ed alle loro infinite variazioni siamo ogni volta e di nuovo come sul limite di un bosco: dobbiamo ritrovare il sentiero. Accogliere l’imprevedibile che la materia riserva : la fissità delle idee appartiene allo schematismo ideologico che nulla o poco ha a che fare con la poesia – oppure alla “maniera”.

La tecnica

O, se si vuole, la padronanza del proprio mestiere e degli strumenti del proprio mestiere. La familiarità dei gesti – sapere calibrare il movimento del polso quando di picchia sullo scalpello (mai tenerlo rigido), sapere maneggiare un flessibile, conoscere la reazione dei pigmenti diluiti nell’alcool quando si versano sul colore ad olio, sapere dosare correttamente la scagliola nell’acqua e soprattutto amalgamarla bene, sapere quando si arriva ad avere l’impasto giusto, quello che ci permetterà di avere un gesso non eccessivamente poroso e friabile – imparare a riconoscere le venature della pietra, quelle che ci dicono dove andare a picchiare senza correre il rischio di scheggiarla o spaccarla, e poi tutti i tipi di pietra (travertino nero, rosa del portogallo, marmo di carrara, etc. etc.). Riconoscere e potenziare l’intelligenza delle mani, lo strumento in assoluto più importante. Le mani che devono essere in grado di sentire e padroneggiare gli strumenti, ma soprattutto la materia. Imparare a vedere con le mani prima ancora che con gli occhi, diceva sempre Cosentino.

La circolarità delle idee

Quando di fronte ad un’opera ci si ritrova in una strada senza uscita, occorre abbandonare – prendere fisicamente le distanze, dedicarsi ad altro. Iniziare a lavorare su un altro progetto, liberare la mente andando incontro ad un altro materiale, utilizzando altri e nuovi strumenti. C’è un filo rosso che unisce pittura scultura orficeria nel lavoro di Cosentino ed è l’idea della strutturazione dello spazio attraverso la modellazione della materia nei termini in cui si è detto. Continuità e contiguità fisica di tecniche diverse (basti pensare all’organizzazione del suo studio) consentono una riflessione in realtà continua sulle stesse questioni. Non c’è rottura, non c’è contraddizione – la sensibilità visiva e sensoriale sviluppata nello scolpire la pietra, ritorna nella pittura in modo chiaramente diverso ma altrettanto evidente – viceversa se ragioniamo sulla composizione, per esempio. In questo modo si allena la testa ad una flessibilità che evita la trappola degli schematismi e comunque di tutti gli –ismi possibili, si lascia aperta la porta per nuove associazioni, nuove intuizioni. La curiosità è un ingrediente che non deve mai mancare.

Il lavoro

E la disciplina, il rigore. Duro e faticoso, il lavoro. Ci vogliono volontà, determinazione. Concetti, nel pensiero comune, difficilmente associabili al fare “artistico”. Ostico, per quelli che ancora pensano al valore del “gesto” in sè. Cosentino era un grande lavoratore – instancabile. Ha scolpito la pietra fino all’ultimo. Non parliamo poi della pittura. Ripeteva sempre che solo gli imbecilli si mettevano a lavorare pensando di produrre capolavori e ancora conservava e mostrava, divertito dalla loro “goffaggine”, le sue primissime opere, sepolte dalla mole di lavoro degli anni a seguire – diceva che prima di fare una mostra bisogna avere alle spalle almeno cento pezzi, che il talento e la genialità non sono nulla senza lo studio, la tecnica, il lavoro. La distanza (fisica ed emotiva) rispetto a ciò che si produce è un elemento essenziale. Imparare a guardare il proprio lavoro alla giusta distanza, questo diceva Cosentino: seduto su una panca, accanto ad una stufa, nel suo studio – mangiando un mandarino.

©Maria Cristina Codecasa Conti

Il testo riporta intervento dell’autrice al seminario “Gino Cosentino e gli architetti” tenuto al Politecnico di Milano il 14 dicembre 2005.

 

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