Mi avevano detto: “Sei matta, che ti sei messa in testa”. “Una donna sola e della tua età. Così lontano”. “E’ faticoso. E’ pericoloso”. “Non conosci nessuno”. “Che diamine ti è venuto in mente”.
Amici, parenti. I vicini di casa. La commessa del supermercato, i miei figli. La mia insegnante di pilates, il giornalaio sotto la metropolitana, i nipoti. Il veterinario, l’estetista, la parrucchiera. La portinaia dello stabile, l’idraulico che mi ha sistemato il rubinetto della cucina.
“Che ti sei messa in testa?”.
Le loro parole, le perplessità, i timori, i moniti, i consigli, scompigliavano fastidiosamente i miei capelli ed i miei pensieri mentre preparavo in silenzio la mia valigia, come può farlo una corrente d’aria in un pomeriggio di autunno. Ho chiuso la finestra.
La mia era stata senz’altro una decisione impulsiva ed improvvisa che aveva sorpreso tutti. Perfino io mi ero stupita di me stessa. Mai, nella mia vita, avevo viaggiato da sola. Mai, nella mia vita, ero stata una donna intraprendente. Ho vissuto in funzione della mia famiglia, di mio marito, dei miei figli. Non avevo mai chiesto nè cercato altro, ero felice così. Fino ad oggi. Mai nella mia vita, infatti, avevo dovuto rivoluzionare la mia esistenza da un giorno all’altro. Un marito che se ne va insieme ad una donna più giovane, come se non fossero mai esistiti quaranta anni insieme. Come se non fossi mai esistita io. E una diagnosi, una parola che nessuno vorrebbe sentire, nessuno vorrebbe pronunciare. Ci vuole un attimo perché nulla sia più come prima.
“Lei ha un cancro, Elizabeth”.
Un cancro! E che vuole da me questo intruso? Chi lo ha invitato? In quale momento si è insinuato nella mia esistenza? Quando gli ho lasciato lo spazio necessario per entrare? Mi sono arrabbiata, molto. Con il cancro, con la vita. Con me stessa. Con quella parola che chiamiamo destino. Però anche questa volta, come sempre, sono stata diligente, disciplinata e ho fatto tutto quello che mi hanno detto i dottori. Avevo altra scelta? Terapie, protocolli, farmaci. Due interventi. Un anno e mezzo di cure. Alla fine mi hanno detto: “Bene Elizabeth, ci rivediamo tra sei mesi per i controlli. Nel frattempo, ritorni alla sua vita normale e cerchi di godersela”.
Il problema è che io una vita normale non ce l’avevo più. E nemmeno la voglia di godermela. Una casa vuota ad aspettarmi, i figli grandi via per i fatti loro, un corpo mutilato, il mio, che facevo fatica a riconoscere. Che non amavo più. Amici e parenti che intonavano all’unisono il coro: “Non mollare!”. Io non mollo nessuno, pensavo. E’ la vita che ha mollato me. Senza preavviso, senza spiegazioni.
Ma mi sbagliavo.
Una mattina ho deciso di mettermi a spolverare la grande libreria in salotto. “Se i medici vogliono che io torni alla mia vita normale, eccoli accontentati”. Perché io, di mestiere, sono una casalinga. Ho preso la scala, ho preso il mio spolverino, sono salita in cima agli scaffali e ho iniziato a pulire. Ma come ho toccato i libri, un vecchio volume gigantesco si è staccato dal mucchio ed è caduto per terra. Quando sono scesa per raccoglierlo, ho sorriso: era il vecchio atlante con cui mio nonno cercava di insegnarmi la geografia.
Cadendo, era rimasto aperto sulle mappe del Nord America, dove il nonno aveva cerchiato con la matita alcune città e indicato un percorso in senso antiorario, sud-est-nord-ovest. Mi aveva mai raccontato di questa parte del mondo?
L’ho preso come un segno. Con l’atlante sotto braccio sono entrata in una agenzia di viaggio e ho detto: “Devo andare qui!” Quel devo è stato assoluto e perentorio.
Quindici giorni dopo, attraversavo l’Atlantico in classe economica, stretta tra un corpulento reverendo metodista ed una giovane matricola di Harvard. Il mio viaggio era iniziato. Ho seguito le tracce del nonno, quei segni scoloriti su un atlante vecchio di cinquant’anni. Come se questo viaggio lo avesse preparato lui per me e come se solo lui potesse immaginare quando, nel corso della mia vita, avrei dovuto farlo. Più di una volta ho avuto la sensazione che lui fosse accanto a me e mi spiegasse fiumi, monti, città come quando ero piccola. Più di una volta ho avuto la sensazione che nulla avviene per caso e che questi giorni, questi chilometri, questi cieli erano lì per insegnarmi qualcosa. E così è stato.
A Boston ho scoperto che anche i cani hanno la loro capitale.
A Salem mi sono sentita strega tra le streghe. Non temo però alcun tribunale dell’inquisizione, non più.
A Portland ho chiesto scusa ad un astice per averlo mangiato e gli ho promesso che mai più avrei toccato i suoi simili.
A Bar Harbour ho comprato delle matite colorate con cui ho iniziato a disegnare il mio futuro, che non sarà più in bianco e nero.
A Conway ho raccolto foglie secche dei colori del miele e bevuto un ottimo vino neozelandese.
A Williamstown ho incontrato una vecchia nativa che voleva leggermi i tarocchi, le ho detto che a me basta ascoltare lo squittio degli scoiattoli.
A Mystic ho navigato in mezzo al mare e ho sentito il respiro delle balene.
A Springfield ho capito che dagli altri c’è sempre da imparare qualcosa, perché sono lo specchio in cui noi ci osserviamo.
A Hyannis ho perdonato me stessa per non essermi amata abbastanza davanti ad un tramonto che sembrava mi stesse aspettando da anni.
A Provincetown ho raccolto conchiglie sulla spiaggia e ho scoperto che so ancora sognare.
Poi sono tornata a casa. Sana e salva.
All’aeroporto amici e parenti mi hanno accolto con sorrisi ed abbracci. Mi hanno detto “Siamo felici che tu sia tornata”. Anche io ero felice di essere tornata. Hanno voluto che raccontassi tutto, cosa avevo visto, quali luoghi avevo visitato, come era il tempo, cosa avevo mangiato. Ed io, con pazienza, ho raccontato.
Non tutto, però. C’è una cosa che non ho detto e non dirò. Per evitare le loro domande, i commenti. Per scansare il loro stupore.
È vero che sono tornata, ma non sono più la stessa. E questo è un segreto che tengo per me.
Testo e foto (c) Maria Cristina Codecasa Conti
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