Con il giusto clamore interplanetario riservato ad una delle top model e donne più belle del mondo, Naomi Campbell ha presentato ufficialmente sua figlia in una intervista a Sarah Harris per British Vogue, corredata dalle foto strepitose di Steven Meisel ( https://www.vogue.co.uk/fashion/article/naomi-campbell-british-vogue-interview ).
Tutto sarebbe filato per il verso mediaticamente giusto se non fosse che Naomi ci ha tenuto ha sottolineare il fatto che sua figlia non è stata adottata.
Questa specificazione ( per altro non richiesta ) non è sfuggita ai media che infatti l’anno ampiamente evidenziata, scatenando illazioni di ogni genere in merito alle modalità con cui la Campbell è diventata madre ( maternità naturale? maternità surrogata? etc. ).
Nell’epoca della stucchevole tirannide del politicamente corretto ogni opinione personale rischia di essere additata al linciaggio e questo mostra la fragilità di una società che si vuole moderna ed inclusiva ma non è in grado di reggere un confronto aperto, duro e costruttivo su temi della contemporaneità come, tra gli altri, la maternità surrogata, l’utero in affitto ed i parametri ( nuovi ed antichi ) della genitorialità.
Una società che non è in grado di reggere un dibattito tra punti di vista diversi preferisce cercare riparo sotto il pensiero mainstream, qualunque esso sia, e facendo questo genera un conformismo diffuso di idee, comportamenti, linguaggio e mode che alla fine esautora l’essere umano di una delle sue capacità e specificità più importanti e necessarie non solo alla sua sopravvivenza, ma alle sue attitudini creative: lo sviluppo di un pensiero critico.
Ma tant’è.
Non mi interessa quindi se la figlia di Naomi l’abbia partorita lei o meno. Lasciamo la spinosa faccenda agli esperti di gossip. Trovo invece più seria la questione che riguarda l’adozione.
Tranquilli, ha detto Naomi, la mia bambina non è stata adottata. E quindi? Ma se anche fosse stata adottata, che problema c’è? Sarebbe diverso? Sarebbe meno figlia tua? Che scenari diversi avrebbe aperto una adozione?
Ha scritto Barbara Palombelli, che di figli ne ha adottati tre e su questo doloroso percorso di adozione ha scritto un bel libro ( Barbara Palombelli, Mai fermarsi, Rizzoli Editore https://www.amazon.it/Mai-fermarsi-Barbara-Palombelli/dp/8817138959 ), in merito alla dichiarazione della Campbell: “Non è adottata. Come se essere adottati fosse qualcosa di sbagliato. Mi dispiace per Naomi Campbell ma soprattutto per chi la pensa come lei”.
Ecco, secondo me la Palombelli ha ragione. Stigmatizzare l’adozione è un fatto spiacevole. Lo dico nel rispetto non solo dei bambini adottati che sono figli al pari di tutti gli altri, ma anche delle famiglie e dei genitori che per adottare un figlio affrontano un lungo e doloroso percorso che richiede anni. Chiedete a dei genitori adottivi di raccontare la loro storia e capirete. Chiedete ad un figlio adottivo di raccontare la sua storia e capirete. Chiedete quanta intelligenza, amore e sensibilità richiedono l’inserimento di un figlio adottivo in una famiglia e capirete. Chiedete che cosa implica un percorso di adozione in Italia e capirete.
Trovo per questo ammirevoli le testimonianze di donne come Luciana Littizzetto e Maria De Filippi che hanno raccontato con grande dignità le loro scelte coraggiose, il percorso dell’affido e dell’adozione da loro intrapreso ( tra l’altro con riservatezza, lontano dai clamori del gossip, nel rispetto dei ragazzi e della loro sensibilità ), e che dei ragazzi da loro adottati parlano usando le uniche e semplici parole che un genitore deve usare: mio figlio, mia figlia, i miei figli. Stop.
I personaggi pubblici devono sempre prestare una attenzione maggiore, rispetto a noi comuni mortali e più di noi comuni mortali, a ciò che dicono, alle parole che usano. Non si è tenuti a raccontare e condividere tutto con il proprio pubblico, ma, nel momento in cui lo si fa, si deve pensare bene alle parole che si scelgono, al contesto in cui le si usa e alle persone che ci stanno ascoltando.
Bastava semplicemente che Naomi Campbell dicesse: “Vi presento mia figlia”.
Punto.
Il resto erano e restano fatti suoi.
(c) Maria Cristina Codecasa Conti
Foto (c) Steven Meisel per British Vogue