Pazienti fragili

C’era una volta una bambina che si chiamava Jana.

Aveva riccioli neri, gli occhi grigi e la pelle colore delle olive. E da grande voleva fare il dottore.

“Curerò tutti con le parole!” diceva Jana.

Il papà e la mamma sorridevano, i nonni la stringevano forte a sé e le accarezzavano dolcemente la testa.

“Le mie parole toglieranno il dolore” ripeteva a tutti “Nessuno sentirà più male.”

“Ma non lo sai che le persone si curano con le medicine, piccola Jana?”

“Dovrai prima studiare tanto, Jana, e poi laurearti, e poi entrare in un grande ospedale ed imparare come si usano le macchine che scoprono le malattie!”

Jana non rispondeva a queste osservazioni, si limitava ad annuire con la testa e continuava a giocare con il suo cane.

Un giorno la sua adorata nonna cadde svenuta in cucina e i suoi genitori la portarono in ospedale.

“La signora ha un cancro alla testa” dissero i medici “Non ci sono speranze. Ha sei mesi di vita.”

“Ma non possiamo tentare di curarla?” chiesero i genitori.

“Faremo il possibile” risposero i dottori “ma le speranze sono poche.”

Detto questo, si chiusero in gelido e professionale silenzio.

Jana fece in tempo a salutare la nonna, a dirle che l’amava e che non l’avrebbe mai dimenticata, perché dopo tre mesi la donna morì.

Passarono alcuni anni, Jana crebbe ed iniziò ad andare alle scuole superiori. Era diventata una ragazzina intelligente e molto socievole, le piaceva studiare e non aveva alcuna difficoltà a fare amicizia.

La sua compagna e amica di banco Anusha iniziò a fare lunghe assenze da scuola. Gli insegnanti spiegarono ai suoi compagni che Anusha stava facendo degli accertamenti perché da tempo non si sentiva bene.

Dopo qualche tempo, Jana andò a bussare alla porta della casa dove viveva la ragazza e le aprì il padre, bianco in volto e con gli occhi pieni di lacrime.

“Anusha è in ospedale, Jana cara. Ha la leucemia.”

“La leucemia! Ma come ?!? Posso andare a trovarla?”

“Certamente, ma non so se sei pronta per tanto dolore.”

“Andrò da lei, le terrò compagnia. Le parlerò.”

Jana iniziò ad andare tutti i giorni in ospedale a trovare l’amica Anusha. Dopo la scuola, raggiungeva la stanza in fondo ad un lungo corridoio dove si trovava la ragazza e le portava un fiore raccolto nei prati, una mela, oppure una foto del suo cane.

Anusha era molto triste.

“I medici dicono che sono un caso raro e grave.”

Jana ascoltava l’amica e ripensava a quanto era accaduto a sua nonna anni prima. Si domandava come mai fosse così difficile per i medici accompagnare delle diagnosi, per quanto terribili,  con delle parole di conforto e speranza.

“Sai Anusha, io ho sempre voluto fare il medico.”

“Ma davvero? Per questo vieni a trovarmi tutti i giorni?”

“No, vengo a trovarti tutti i giorni perché sei una mia amica e ti voglio bene. Ma certo osservo tanto e sto imparando.”

“E che cosa stai imparando?”

“Vedo i pazienti curati con le medicine, attaccati a macchine complesse, medici molto preparati e professionali, infermieri compassionevoli. Ma non sento le parole. C’è un grande silenzio.”

“Le parole? Quali parole? Qui parlano tutti in continuazione!”

“Vediamo se riesco a spiegarmi. Qua si dicono tantissime cose continuamente: si parla di medicine, di globuli bianchi e rossi, di dati, di numeri. Si chiede ai pazienti come stanno, ma nessuno ha voglia di sapere come stanno davvero. Ci si riferisce sempre alla loro parte, come dire, meccanica, biologica.”

“E quindi? Non è forse per questo che si viene in ospedale? Per curare il nostro corpo e le malattie?”

“Sì certo, Anusha, ma noi non siamo solo corpo. Siamo anche anima. Da piccola, quando mi veniva l’influenza, mia nonna trascorreva tanto tempo accanto al mio letto a raccontarmi delle storie. Erano storie che mi calmavano, mi facevano sognare. Poi mi accarezzava la testa con dolcezza e mi chiedeva come mi sentivo, se ero triste, se avevo dolore da qualche parte. E mi rassicurava sul fatto che presto sarei tornata a giocare con i miei amici.”

“E tu ti sentivi meglio?”

“Mi sentivo meglio perché accanto a me c’era qualcuno che  mi ascoltava davvero, capiva quanto fossi triste ed impaurita, mi dava il latte caldo con il miele e mi infondeva fiducia.”

“Ma i medici non possono fare come la tua nonna, Jana! L’ospedale andrebbe in tilt!”

“Beh, certo. Portare a tutti i pazienti il latte caldo con il miele ed un libro di favole sarebbe complicato. Però i dottori potrebbero provare ad essere più attenti quando parlano ai pazienti della loro salute, perché per una persona malata le parole possono essere un balsamo o un colpo al cuore. Quando sei malato, ti aggrappi ad una parola come se fosse una scialuppa di salvataggio. Ma ci sono parole che possono affondarti.”

“Come è vero, Jana! Sapessi che paura ho quando i medici entrano nella mia stanza. Attendo tremando che aprano bocca, come se fossi davanti ad un plotone d’esecuzione.”

“Quando mia nonna si ammalò,  i medici le dissero che non aveva speranza. I miei genitori cercarono in tutti i modi di infondere coraggio alla nonna, ma lei interiorizzò a tal punto le parole di condanna a morte pronunciate dai medici che morì tre mesi prima di quanto avessero previsto.”

“Che storia triste, Jana. Io non vorrei finire così.”

“Non finirai così, Anusha, ne sono sicura. Verrò da te tutti i giorni, ti leggerò delle poesie, ti racconterò le novità della nostra compagnia di amici, ma soprattutto ti aiuterò tutti i giorni a pensare a delle cose belle, ad immaginare come sarà il tuo futuro, a coltivare i tuoi sogni.”

“Ma i medici mi hanno detto di non essere troppo ottimista e di non farmi troppe illusioni. Hanno detto che hanno il dovere di dirmi la verità.”

Jana rimase un istante in silenzio.

“Mia cara amica” disse “noi siamo ciò che pensiamo. I medici dicono che tu non devi farti illusioni, ma si dimenticano di dirti quanto sia importante la tua sete di vita per poter guarire. La nostra mente è molto potente, Anusha, e può fare miracoli. Per questo, ti consiglio di non fare tue le infauste profezie dei dottori e di credere fortemente nella tua guarigione.”

“Non è così facile come dici.”

“Lo so. Ma la speranza è un fuoco che va alimentato e noi lo faremo con Bellezza, Poesia e Amore.”

“Grazie Jana, le tue parole mi hanno rincuorato. Ne avevo bisogno, dopo giorni e giorni di paura.”

“Hai visto?” disse Jana “E siamo solo all’inizio! Poco alla volta imparerai ad avere fiducia nelle tue capacità di guarire te stessa.”

“E se non dovessi riuscirci?”

“Ricordi quello che ti ho detto prima? Noi siamo ciò che pensiamo. Allontana da te i pensieri di incertezza e di fallimento: sono nocivi alla salute. Non solo la tua, ma quella di tutti. Incomincia a fare spazio nel tuo cuore e nella tua testa a pensieri positivi. Ti accorgerai subito dei cambiamenti che questo porterà nella tua vita.”

“Forse le tue parole iniziano già a fare effetto, perché dopo giorni di nausea e di inappetenza per la chemioterapia mi è venuta un po’ di fame!”

“Ne sono felice, Anusha. Ho con me un paio di mele, le ho colte dall’albero che cresce nel giardino della casa di mia nonna. Penso che lei sarebbe felice di sapere che c’è ancora qualcuno che si preoccupa di raccoglierne i frutti.”

Le due amiche iniziarono ad addentare le loro mele e passarono il resto del pomeriggio a parlare di scuola, di vestiti, di ragazzi.

Sono passati vent’anni da quel pomeriggio.

Anusha si è sposata con il suo fidanzato del liceo, ha avuto due bambini ed insieme al marito è andata a vivere in campagna, in una grande tenuta agricola dove accolgono animali maltrattati ed abbandonati.

Jana si è laureata in medicina.

Non si è sposata, né ha avuto figli: a chi le chiede perché, risponde che la sua passione e forse la sua missione è sempre stata quella di fare il medico. E che le passioni vere sono sempre totalizzanti.

E’ andata a lavorare nell’ospedale di una grande città ed è diventata un primario. Lavora molte ore ogni giorno, senza sosta. Alla sera, quando rientra a casa, è stravolta per la stanchezza. Ma è felice.

I suoi pazienti la amano molto. Dicono che è un medico che li sa ascoltare, dicono che riesce a darti le notizie più tristi con garbo e delicatezza, ma soprattutto dicono che non ti toglie mai la speranza.

Si dice che Jana lasci nelle stanze di degenza del suo reparto dei piccoli libri di poesia e che abbia detto agli infermieri di leggerne una ogni sera ai suoi pazienti. 

Il direttore dell’ospedale all’inizio era perplesso, la trovava una cosa priva di senso, una gran perdita di tempo. Ma quando ha visto, dati alla mano, che i pazienti di Jana si riprendevano (e spesso guarivano) molto più velocemente di quelli di altri reparti, ha dovuto ricredersi.

Un giorno l’ha convocata nel suo ufficio.

“Dottoressa, mi spieghi cosa fa lei di tanto speciale.”

“Nulla, direttore. Non ho una bacchetta magica né sono dotata di poteri straordinari. Ma io i miei pazienti li ascolto. E uso con grande cura, attenzione e amore la medicina più potente di cui noi medici disponiamo. Le parole.”

(c) Maria Cristina Codecasa Conti

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