Cara bambina di circa sei anni che questa mattina, nella cartoleria in cui sono entrata, non hai mai smesso di urlare un istante, non hai mai smesso di strattonare la gonna della tua mamma, non hai mai smesso di toccare tutto quello che ti capitava a tiro e in alcuni casi di buttarlo per terra, non hai mai smesso di chiedere che ti venisse comprato tutto il negozio e ti sei buttata per terra gridando come una forsennata quando hai capito che non era possibile, mentre tua madre proseguiva nei suoi acquisti senza battere ciglio e la commessa, io ed altri clienti assistevamo ammutoliti a questo triste spettacolo e abbiamo tirato un grande respiro di sollievo quando vi abbiamo visto finalmente uscire dal negozio (speravo che la tua mamma si scusasse con i presenti almeno per la lunga attesa, ma era troppo occupata a tenere d’occhio le notifiche sul suo cellulare) – ecco, cara bambina, volevo dirti che alla tua età per un decimo di quello che ti ho visto fare questa mattina io avrei ricevuto da mia madre una sberla in piena faccia.
Senza troppe spiegazioni, senza troppe parole. In barba al politicamente corretto, alle teorie pedagogiche fluide, alla paura dell’esercizio di uno straccio di autorevolezza genitoriale.
Cara bambina, sapessi quante sberle che ho ricevuto dai miei genitori: eppure, come vedi, sono egregiamente sopravvissuta. Guardandoti, ringraziavo di cuore mio padre e mia madre che hanno tirato su i propri figli senza farsi troppe domande, senza leggere troppi libri, senza troppe menate filosofico-pedagogiche, senza andare troppo per il sottile, senza farci mancare niente ma ricordandoci ogni giorno di essere grati per quello che avevamo, che fosse il cibo sulla nostra tavola o la Barbie nella nostra cesta dei giocattoli.
Ringraziavo i miei genitori ai quali bastava uno sguardo ed a volte, anzi spesso, anche solo il silenzio per farci capire che una cosa non doveva essere fatta, che ci hanno ripetuto fino allo sfinimento che studiare era il nostro dovere così come un giorno lo sarebbe stato il lavoro e che prima di parlare dei nostri diritti avremmo dovuto fare una lunga gavetta umana e professionale per poterceli conquistare.
Li ringraziavo perchè quando tornavano dai colloqui con gli insegnanti ci ricordavano che nei loro confronti dovevamo avere il massimo rispetto, anche quando ciò che dicevano o facevano poteva sembrare a noi difficile faticoso od inutile. Li ringraziavo perchè ci hanno insegnato a dire grazie e per favore, ad ascoltare gli altri, a rispettare il prossimo e a non fare di noi stessi l’ombelico del mondo, checchè ne dica Jovanotti.
Cara bambina, se questa mattina mi hai fatto tenerezza non è stato per la tua giovanissima età, nè per le tue treccine annodate con due deliziosi elastici di Hello Kitty.
Mi hai fatto tenerezza perchè ho pensato che tu non hai avuto, evidentemente, la fortuna che ho avuto io.
Perchè crescerai con l’idea che non esistano limiti e quando ci sbatterai contro ti farai purtroppo molto male. Perchè crescerai pensando che tutto ti è dovuto e sarà molto duro accorgersi che no, non è così: bisogna lottare, ed anche molto. E fare fatica. Ma questa fatica, pensa, va a nutrire la propria autostima, la propria dignità, il proprio orgoglio. Ed è una fatica che condividiamo con tutti gli esseri umani. Ti auguro di trovare qualcuno che ti veda e ti ascolti davvero, che capisca che (oltre alle lezioni di danza, la piscina, il corso di inglese e quello per piccoli chef) hai bisogno di regole, hai bisogno di limiti, hai bisogno di esempi, hai bisogno di riferimenti.
Ti auguro di capire presto che non esiste un io senza un tu/noi e che le cose più straordinarie non accadono sul cellulare ma nella vita, là fuori.
Dillo anche alla tua mamma.
Testo ©Maria Cristina Codecasa Conti
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