In questi mesi, da quando abbiamo dovuto imparare nostro malgrado a convivere col coronavirus e durante questa surreale “covid summer”, ho sentito spesso usare, anche da amici e conoscenti, la parola “sacrificio” a proposito delle precauzioni (mascherina, igiene, distanziamento) raccomandate dai medici, dagli infermieri (li ricordiamo, no, i nostri eroi durante il lockdown?), dalle autorità sanitarie e soprattutto, mi verrebbe da dire, dal buonsenso.
In alcuni casi, ho ascoltato e letto affermazioni che, francamente, sfioravano il senso del ridicolo. Spesso queste affermazioni riguardavano apericene, gestione del tempo libero, organizzazione delle vacanze, nuovi regolamenti in palestra o nuove routine in ufficio (per i fortunati che in questo momento hanno un lavoro stabile).
Ora, ognuno di noi è libero di scegliere di dare alle parole il peso che vuole. Per me, quando si parla di “sacrificio” l’asticella si alza. E parecchio.
Avrei gioco facile a citare grandi esempi storici e contemporanei di sacrificio nel nostro paese e nel mondo, ma sarebbe come proiettare un film che ci fa versare lacrime ma alla fine non ci riguarda, usciamo dal cinema e andiamo a mangiarci una pizza. E invece no.
Quindi riporto la questione su un piano più semplice, personale, oserei dire domestico e penso a tutte le persone eccezionali che ho avuto l’onore di conoscere e che conosco che devono declinare quotidianamente ogni singolo verbo associandolo alla parola “sacrificio”, spesso in silenzio, senza proclami e con enorme dignità. Mettendosi pure la mascherina.
Penso a chi ha un figlio disabile, a chi vive su una sedia a rotelle, a chi ha lavorato di notte per potersi pagare gli studi all’università e magari era il primo di tante generazioni a prendersi una laurea, a chi rischia ogni giorno la propria vita per preservare quella degli altri, a chi deve crescere una famiglia da solo. Penso a chi ha dovuto rinunciare ai propri sogni e progetti per cause di forza maggiore, a chi fa i salti mortali per riuscire a mettere insieme un pranzo e una cena, penso a chi è costretto ad andare a vivere e lavorare in altri paesi lontano dai propri affetti per potere consentire a questi affetti di avere un piatto caldo sul tavolo e la possibilità di migliorare la qualità della propria vita, a chi fa più di un lavoro per pagarsi il mutuo della casa, a chi accudisce un genitore anziano o un malato terminale.
Potrei riempire pagine e pagine con esempi di grande, grandissimo sacrificio.
Poi c’è il sacrificio dei medici, degli infermieri, del personale amministrativo, dei dipendenti e dei tecnici che in questi mesi stanno lavorando negli ospedali. Perché se è vero che uno sceglie di fare il medico, non è che per questo debba necessariamente lasciarci le penne e vorrei umilmente ricordare che sono in tanti (medici e infermieri) quelli che per curare il covid hanno perso la vita. Quelli a cui in marzo dedicavamo i nostri applausi dalle finestre di casa e che ora sembrano infastidirci con le loro raccomandazioni.
Se poi dovessi spiegare con più leggerezza cosa sia il sacrificio, allora consiglierei di guardare una puntata di “Little Big Italy”, un programma televisivo ben fatto condotto da Francesco Panella che racconta storie di migranti italiani che hanno aperto ristoranti all’estero: gente che non ha solo dovuto rincorrere il pane da mangiare ma magari ha voluto e dovuto rimettersi in gioco, scommettere su una vita nuova con dei costi personali ed economici davvero alti. Alcune sono storie di successo, altre no. Ma davanti a molte di queste ci si deve togliere il cappello ( tra l’altro, per chi non lo sapesse, in Umbria, a Gualdo Tadino, è nato il Museo Regionale dell’Emigrazione Pietro Conti, un museo che racconta l’emigrazione italiana).
Quindi, quando usiamo la parola sacrificio, facciamolo per favore con uno straccio di pudore. Perché se per “sacrificio” si intende esercitare un minimo di buon senso, allora vuol dire che siamo messi proprio male.
(c) Maria Cristina Codecasa Conti
(Fonte immagine: New York – Welcome to the land of freedom; Frank Leslie’s illustrated newspaper, pp. 324-325, 1887)
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