56 anni sicuramente ben portati, longilinea, poliglotta. Si sospetta qualche intervento di chirurgia estetica, ma glielo perdoniamo (con le Icone è meglio lasciar perdere moralismi inutili). Colore dei capelli: variabile. Single (anche se pare, secondo la sua storiografia personale sapientemente pianificata dalla Mattel, che dal 2006 sia tornata insieme al suo fidanzato storico Ken). Nessun figlio. Cittadina del mondo. Luogo di nascita: oltre 50 nazioni. Professione: dall’astronauta alla casalinga, non disperata.
E’ lei, Barbie (o meglio Barbara Millicent Robert) la bambola più venduta nella storia e l’icona pop per eccellenza a cui il MUDEC di Milano dedica una mostra “Barbie. The Icon” che si inaugurerà il 28 ottobre. Inventata da Ruth e Elliot Handler, cofondatore della Mattel, nel 1959, la bambola Barbie, che prende il nome dalla figlia della coppia Barbara Handler, è destinata da sempre ad accendere controversie e dibattiti – anche a Milano, dove la mostra a lei dedicata ha sollevato un vespaio di polemiche.
Per alcuni rappresenta il peggiore degli stereotipi femminili: la bella e scema, tanto per intenderci, con un fisico e un look inaccessibili al 99,9% delle donne abitanti il Pianeta Terra (su Marte non possiamo sbilanciarci a causa di mancanza di dati attendibili), una che probabilmente passa la sua vita ad occuparsi del Nulla. Pessimo giocattolo dunque da regalare a una bambina, se pensiamo che uno dei primi passi per educare la propria figlia all’emancipazione femminile sia quello di regalarle il kit del piccolo meccanico anzichè il Cicciobello, se vogliamo ( ancora e a lungo) discutere dell’identità di genere, se apparteniamo alla schiera di coloro che sostengono che il giocattolo debba essere sempre istruttivo, pedagogico, intelligente. E castrante.
Per altri, invece, Barbie è l’emblema dell’emancipazione femminile: bella e intelligente, libera, un fidanzato che va e che viene e che comunque non l’ha mai fatta capitolare davanti ad un altare, nessun figlio, tanti amici, una inquietudine e precarietà professionale decisamente attuale e condivisibile. Un corpo che è espressione di un concetto chiave e potenzialmente rivoluzionario dal punto di vista femminile: prendersi cura di sè. Fashion victim ante-litteram e decisamente glamorous, Barbie è un femminile fuori dagli stereotipi: non rassicurante, non accudente, non angelico e nemmeno casto. Il suo corpo, la sua vita, rappresentano un sogno: ma non è forse quello che fa una borsa di Chanel e non è forse quello che, davvero, compriamo quando entriamo in un negozio Louis Vuitton? E’ così sbagliato e pericoloso sognare? Direi proprio di no. Ed è forse questa la sua grande forza: rappresentare un Sogno. E sono proprio i sogni, spesso, ad essere potenzialmente eversivi. Se poi a sognare è una donna, fa ancora più paura.
Personalmente, con Barbie ci sono cresciuta e ho trascorso ore ed ore a giocarci, felice. Ciò non ha in alcun modo influito non solo sulla strutturazione della mia identità femminile, ma nemmeno sulla mia presunta o reale emancipazione. Ho giocato con Barbie, con il Lego, con i Playmobil, col Piccolo Meccanico – e leggevo libri, disegnavo, studiavo. Senza soluzione di continuità, come tutti i bambini. Ah, ho giocato anche con le pistole ad acqua senza per questo diventare un serial killer, con Cicciobello ma non ho avuto figli e con il trenino elettrico ma non lavoro nel settore ferroviario.
E alla fine penso avesse ragione Bruno Munari, che di bambini se ne intendeva eccome, quando sosteneva che non c’è migliore stimolo alla creatività ed al gioco della noia. Si, proprio lei. Perchè apre le porte all’immaginazione e rende possibile l’invenzione.
Costringendoci ad ammettere, dall’alto nelle nostre teoriche certezze, che i bambini, prima ancora che con la Barbie ed il Lego, giocano con la fantasia.
testo ©Maria Cristina Codecasa Conti
Cosa: Barbie. The Icon.
Dove: al Mudec, Museo delle Culture via Tortona 56 Milano.
Quando: 28 ottobre 2015 – 13 marzo 2016
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